Valutare le cure in salute mentale
Il tema non è tra quelli più “di moda”: nei due giorni del Global Mental Health Summit a Roma lo scorso ottobre, al monitoraggio e valutazione della qualità dei servizi di Salute Mentale è stato accennato in non più di tre o quattro interventi, e solo con qualche parola.
Il nostro Ministero della Salute, tramite il “Sistema di Garanzia” (Il Nuovo Sistema di Garanzia (NSG)) basato sulle informazioni del Sistema Informativo Sanitario, verifica che tutti i cittadini italiani ricevano le cure e le prestazioni rientranti nei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA).
Purtroppo, la Salute Mentale ha il ruolo di Cenerentola: su 88 indicatori, solo 4 la riguardano (es. tasso ospedalizzazione, n. TSO, re-ricoveri entro 30 gg dalle dimissioni), peraltro senza approfondire i motivi (es. mancanza di Piano Terapeutico Individualizzato, oppure PTI non allineato alle best practice,…); tra i 10 indicatori più interessanti – quelli per il monitoraggio e la valutazione dei percorsi diagnostico-terapeutici assistenziali (PDTA) – nessuno riguarda la Salute Mentale: sono relativi solo a pneumologia, cardiologia e oncologia.
È impossibile valutare la qualità in Salute Mentale? Io credo che sia non solo possibile, ma anche doveroso.
Sia all’estero sia in Italia, un’ampia letteratura e alcune esperienze concrete dimostrano che è possibile valutare le cure (farmacologiche e psicoterapeutiche), secondo le dimensioni di:
– Accessibilità ed equità: le cure devono essere disponibili a tutti, indipendentemente dalla collocazione geografica, dal reddito, dalla gravità della patologia…
– Appropriatezza: l’intervento deve seguire le linee guida scientifiche e deve contemporaneamente essere efficace ed indicato per la persona che lo riceve
– Continuità: i contatti devono essere sufficientemente vicini nel tempo e coerenti tra i diversi servizi coinvolti
– Sicurezza: devono essere ridotte al minimo le conseguenze negative (es. gli effetti collaterali dei farmaci)
– Efficacia: riguarda l’esito del trattamento: il paziente deve “aver fatto passi avanti” sul suo specifico percorso di recovery.
Esistono testimonianze concrete su come raccogliere i dati necessari alla valutazione in modo sostenibile (cioè senza oneri eccessivi per gli operatori) e non auto-referenziale (cioè in modo il più possibile partecipato e oggettivo): in alcune realtà, si utilizzano di routine metodi e indicatori strutturati e si coinvolgono nella valutazione – oltre agli operatori – l’utente, la famiglia e una terza parte imparziale che funge da garante (es. un utente/familiare esperto).
In particolare, la valutazione degli esiti è un tema cruciale, prima di tutto per il buon funzionamento e il miglioramento continuo del sistema. E poi anche per ciascuno di noi, personalmente: per noi familiari e utenti, perché le prestazioni fornite dai Servizi ci interessano solo quando riescono davvero a cambiare in meglio la nostra vita; per gli operatori, perché sapere se e quanto è migliorata la nostra vita dà senso al loro lavoro; e infine – lasciatemi dire – per tutti i cittadini che con le loro tasse finanziano i servizi di Salute Mentale, perché è giusto che sappiano se i loro soldi sono stati spesi bene.
Ma che cosa significa valutare gli esiti? Vi faccio un esempio. Mio figlio è in carico ai servizi di Salute Mentale da oltre due anni e in questo periodo la nostra percezione è che sia peggiorato: l’uso di sostanze è aumentato, le crisi sono più frequenti, non riesce più ad abitare in autonomia, ha abbandonato i tentativi di lavoro e volontariato, ha aggiunto tre nuovi procedimenti penali, ha smesso di credere che per lui una cura sia possibile.
Vorrei avere degli indicatori, condivisi e standardizzati su tutti i CSM, per confrontarci con gli operatori e reindirizzare il Piano Terapeutico Individualizzato se è evidente che gli interventi finora fatti sono inefficaci. E magari avere una figura “super partes” (es. un utente/familiare esperto, come a Trieste), che aiuti a mediare le posizioni di utente, famigliari e operatori.
Qualcuno obietterà che la qualità costa, e non ce la possiamo permettere per la ormai cronica carenza di risorse per la Salute Mentale. In realtà la qualità può essere anche fonte di risparmio: è molto interessante uno studio OCSE, in cui si stima che il costo delle malattie mentali non diagnosticate o mal gestite, abbia un impatto economico fino al 4,2% del PIL (fonte).
Sono convinta che, mentre chiediamo di aumentare le risorse destinate alla Salute Mentale, occorra anche chiedere di verificare come vengono impiegate, altrimenti si rischia di mettere benzina in un serbatoio bucato.
Per chi vuole investire un paio d’ore sul tema, propongo la registrazione del seminario dedicato nell’ultima edizione del Màt – Settimana della Salute Mentale di Modena (video).
(Questo articolo è stato pubblicato anche sul blog di Progetto Itaca)
Concordo pienamente
Mia moglie, in cura da più di vent’anni presso il CSM di Trento per una patologia bipolare, ha cominciato a soffrire di un fastidioso tremore agli arti superiori. Per cercare di mitigarlo, lo psichiatra che la segue ha suggerito di modificare la terapia. Il risultato è stato un peggioramento: accanto ad una ricaduta in una fase depressiva, il tremore si è accentuato compromettendo anche la deambulazione. Tanto che è sorto il sospetto si trattasse di Parkinson. Ci siamo rivolti al centro disturbi del movimento che, dopo un esame specifico (Dat scan – con liquido di contrasto), ha escluso la patologia neurologica, indicando in una causa iatrogena (effetti collaterali da psicofarmaci) il verosimile colpevole. Ci è stato spiegato che la nuova terapia psichiatrica (Aripiprazolo) può aver ostacolato il transito delle informazioni tra i neuroni cerebrali “sporcando” i recettori; mentre nel Parkinson idiopatico (quello vero) è la mancanza di dopamina nei trasmettitori che causa la malattia. A fronte di questa pesante esperienza, mi domando quanto sarebbe vantaggioso per il paziente che le diverse discipline che si occupano del cervello si “parlassero” di più. Quanto gioverebbe alla qualità complessiva del servizio un “consulto” permanente tra professionalità differenti e convergenti? Non dovrebbe essere questione di costi, ma di una migliore organizzazione!