21 Novembre 2024
Racconti

E’ stato un po’ come morire per rinascere

Dopo aver lavorato nove anni alle dipendenze di un ufficio pubblico, ho avuto l’opportunità di essere comandata presso un’unità di Psichiatria, occupandomi esclusivamente di aspetti culturali. Questo passaggio non è stato una passeggiata anzi, il prezzo per la mia salute è stato molto alto. Posso però dire che è valsa la pena oltrepassare il confine per scoprire un mondo, oltre la fragilità, fatto anche di risorse che mi (ci) appartengono.

Tutto è iniziato nel 2013, scatenato da un ennesimo abbandono, come un forte uragano che improvvisamente ti cambia la rotta e non riesci a gestire l’alta marea che ti trascina portandoti in posti ignoti che, pur appartenendoti, hai paura di riconoscere.

Mi sono ritrovata rinchiusa in casa temendo di essere inseguita ovunque mi trovassi. Non volevo avere più contatti con nessuno. Un enorme malessere aumentava ogni giorno di più. Mi ero procurata una pistola giocattolo per difendermi da chiunque suonasse il campanello.

Il viaggio

Una mattina, dopo una frugale spesa al supermercato (sabbia per il gatto e carta igienica), infilo in macchina il tutto e, insieme a mia figlia di nove anni, mi ritrovo in autostrada direzione Germania, arrivando in aeroporto a Monaco con in mano la sabbia del gatto, ma senza il gatto… che avevo dimenticato a casa. Con il senno di poi mi viene da sorridere, ma in quel momento ero confusa e disorientata. Senza passaporto chiesi se potevo partire, naturalmente la risposta fu negativa.

Mi trovavo frastornata a vivere nella mia testa e nel fisico come in mezzo alla terza guerra mondiale: tutti i camion che incrociavo erano per me solo carichi di deportati. Insomma, un’angoscia mai provata prima che mi spingeva a trovare rifugio da qualche parte per me e mia figlia.

Arrivammo in un bed and breakfast intorno a Monaco poi, finiti i soldi per vitto e alloggio, siamo arrivate ad un campeggio con alcune provviste e abbiamo dormito in macchina. Vicino a noi c’era un grandissimo camper nero proveniente dalla Norvegia, gli occupanti erano molto gentili e, prima di andare a dormire in macchina, salii le loro scalette con la mano pronta a bussare per dire: “portateci con voi, vogliamo acquisire la nostra vera identità.”

Ma non ho avuto abbastanza coraggio e se c’è una cosa nella vita di cui mi sono pentita è proprio questa: non aver chiesto aiuto a degli sconosciuti, ma soprattutto non essere partite.

Ho vissuto per anni, da quando è nata mia figlia, la sensazione forte che qualcuno potesse portarmela via, o l’avesse già fatto.

Come ritrovare l’equilibrio

In questi ultimi anni sto cercando di acquisire strategie per affrontare la quotidiana “corsa ad ostacoli a cavallo” in quanto sento che in ogni momento si può presentare all’improvviso un altro confine da oltrepassare. Le strategie si contano sulle dita: il canto, il teatro-danza e il thai-chi, ma ogni disciplina è legata all’altra, le accomuna la ricerca e la sperimentazione. Per esempio, quando esco con il cane nei campi sperimento l’equilibrio alternato al disequilibrio del corpo senza considerarlo un errore: è una forza per ripartire, per scoprire un altro movimento forse migliore.

Insomma, sto imparando a “camminare sulle uova”: una sorta di precarietà che attiva l’attenzione.

E devo dire che schiacciare i gusci, prima del loro tuffo nell’organico, sia una delle sensazioni più belle per il tatto.

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