21 Dicembre 2024
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Il Supporto tra Pari nei Servizi di Salute Mentale

Il mio intervento come ESP – Esperta in Supporto tra Pari. Una vena critica non poteva mancare al Congresso internazionale della WAPR (World Association for Psychosocial Rehabilitation) a Torino.

Sono felice di essere qui, poiché è proprio quello che desideravo fare come ESP (Esperto in Supporto tra Pari) o peer supporter: partecipare a incontri di questo tipo.

È stata una conseguenza spontanea, dal 2019, avere il desiderio di mettermi a disposizione con il mio sapere esperienziale, dopo aver vissuto, per un momento della mia vita relativamente breve, ma intenso come l’inferno, come utente. Ora posso dichiararmi ex utente. La mia storia si può trovare nei social, ma ora mi vorrei focalizzare su questo intervento.

Ho riflettuto molto sul tema di diritti, responsabilità e risorse nei servizi di salute mentale europei, in particolare in Italia, con attenzione all’orientamento comunitario, alle esperienze innovative e al coinvolgimento degli utenti. Certamente, ci sono più opportunità rispetto a un tempo, ma, a mio avviso, restano anche diversi ostacoli da superare.

Intraprendere un percorso di recovery è fondamentale per mettersi al servizio degli altri. Il primo presupposto è stare bene con sé stessi, attivando un processo di consapevolezza che consente di acquisire e rafforzare la propria autostima, abbattere lo stigma e aprirsi al dialogo, anche con spirito critico.

È essenziale rimanere fedeli alla propria storia personale e al proprio vissuto, focalizzandosi su ciò che si desidera fare e su come procedere dopo aver trasformato un periodo di crisi in opportunità. Questo implica un’assunzione di responsabilità e rispetto per sé stessi, al fine di supportare gli altri nel loro processo di recupero, che si differenzia dagli altri ruoli poiché si basa su esperienze di vita, uno dei principi base dell’ESP.

È fondamentale sviluppare uno spirito critico nei confronti di ciò che si è visto e sentito all’interno dei servizi e della propria percezione vissuta durante il periodo di crisi esistenziale. È opportuno assumere una posizione ben definita e fare osservazioni che devono essere espresse senza timore, se si desidera instaurare un dialogo onesto, sia con gli operatori dei servizi che con gli utenti.

Il proprio stato interiore si riflette nell’ambiente circostante e il tipo di pensiero chiaro e deciso può impedire la formazione di dinamiche di subordinazione. Dopo aver maturato una certa sicurezza e autonomia, l’ESP può integrarsi e contribuire efficacemente in qualsiasi contesto comunitario, grazie all’acquisizione della capacità di muoversi con destrezza e specificità, facendo tesoro di ciò che ha funzionato o non ha funzionato, come linee guida da condividere.

Sebbene la presenza dell’ESP, che decide di svolgere la sua attività all’interno dei servizi, possa fare la differenza, esiste un rischio considerevole: potrebbe trovarsi spesso sotto osservazione da parte degli stessi operatori dei servizi di salute mentale di cui è stato, o è ancora, fruitore. Pertanto, è fondamentale che non venga coinvolto in attività che possano mettere a repentaglio la sua stabilità emotiva, soprattutto se non è sufficientemente radicato e formato. Ci sono ruoli che potrebbero rivelarsi non adatti e portare alla difficoltà di affrontarli, a causa di stress o di un appesantimento emotivo.

Gli esperti per esperienza dovrebbero rappresentare un valore aggiunto, piuttosto che un ulteriore onere per gli operatori dei servizi, se non funzionali al contesto.

Va comunque riconosciuto che “tutti”, inclusi i professionisti, sono suscettibili a deficit emotivi, specialmente sotto stress e a rischio di burnout. Sentirsi supportati, valorizzati e non giudicati può trasformare le sfide in opportunità e favorire la crescita personale.

Mi chiedo perché molti non credano nella figura dell’utente esperto; sarà forse perché si associa a questa figura l’idea di una persona fragile, o perché si cela il timore di essere privati del proprio ruolo? O forse temono di dover uscire dalla propria zona di comfort? Quali pregiudizi si nascondono dietro a operatori che mostrano un’apparente disponibilità? Un obiettivo fondamentale, a mio avviso, nel contesto del coinvolgimento degli utenti dei servizi di salute mentale, è prendersi cura delle relazioni e promuovere il concetto di autonomia e indipendenza.

L’introduzione di un ESP consiste in qualcosa che smuove gli equilibri e i campi d’azione; all’inizio può risultare destabilizzante, ma se la formula è basata su evidenze significative e sulla positività degli interventi, credo che tutti potrebbero abbassare le difese. Penso che l’operato dell’ESP debba essere valutato in base ai risultati e dalle esperienze verificabili delle persone che usufruiscono del supporto dei pari. Forse manca proprio questo.

C’è ancora molto da fare, anche se si parla sempre di più di questa figura, che aspira a diventare professionale. Credo che dovremmo lasciare da parte l’ideologia che si è sviluppata intorno a questa opportunità e concentrarci prima sulle radici; i frutti si potranno vedere solo se il seme è stato piantato in un terreno fertile.

Il miglior successo a cui dovremmo aspirare è che le persone che accedono ai servizi non abbiano più bisogno di una presa in carico.

A me piace pensare che la persona possa aprire le sue ali e imparare a volare. Fuori!

Non so voi come la pensate, ma io mi sono chiesta quale sia il mio intento e la mia missione, per cui ho scelto di condividere la mia storia e la mia esperienza, di impegnarmi nell’associazionismo e nella difesa dei diritti degli utenti, e cerco di dare informazioni utili, anche attraverso i social. Mi metto in ascolto di persone che si rivolgono a me ed eventualmente, accompagno nella fase di recupero, senza la pretesa di salvare nessuno, poiché la vera “salvezza” è un percorso personale.

(Oltre a fare interventi di questo tipo per chi ha il coraggio di invitarmi.)

Proprio mentre stavo scrivendo questo testo, mi ha scritto una ragazza di 40 anni, ancora nel disagio, e lo è da molti anni. Abbiamo un dialogo a distanza, perché vive in un’altra città, ma ci siamo conosciute di persona; attualmente si trova in una struttura riabilitativa. Mi è venuta l’idea di coinvolgerla e chiederle cosa, secondo lei, un ESP dovrebbe fare. Riporto quello che mi ha scritto senza alcuna modifica:

“Cosa dovrebbe fare un ESP? Penso a quello che stai facendo tu con me e credo sia questo da fare… Sei l’unica persona che ha empatia e capisce. Ascolti e cerchi di dare speranza, cerchi di far vedere che c’è una via d’uscita… Ogni volta che ti sento, mi dai fiducia… Ti metti nei miei panni perché hai vissuto la stessa cosa…”

Non per autoreferenzialità, ma perché voglio dare un segno concreto (ovviamente mi fa molto piacere). Un’altra ragazza, di 26 anni e con la quale ho un dialogo costante anche in presenza essendo della mia città, mi scrive:

“Cosa dovrebbe fare l’ESP?… Ascoltare attivamente, guidare passo passo, essere compassionevoli e vestirsi di umanità, tanta umanità. Questo è ciò che ha fatto Susanna con me, e grazie a lei la mia vita ha preso la svolta per un vero cambiamento.”

Un padre di un ragazzo, familiare, e sua moglie, che si sono rivolti a me facendo una ricerca su Internet, dicono:

“Susanna è stata fondamentale per il percorso di rinascita della nostra famiglia. Nelle fasi iniziali della nostra brutta esperienza ci ha fornito, con competenza e pazienza, informazioni preziose non reperibili altrove. In lei abbiamo trovato una guida sicura e preparata che ci ha indicato con fermezza la via. Senza di lei non sappiamo come sarebbe andata a finire. Grazie di tutto.”

Queste testimonianze danno speranza a me e la forza di continuare a procedere con passione e determinazione in quello che sto facendo e portando avanti in questi anni. Chi sceglie di collaborare con i servizi dovrebbe avere ben chiaro qual è la propria specificità e ispirare le persone che si rivolgono a queste strutture a ritrovare la propria strada dopo un periodo di difficoltà emotiva.

Rifletto sul rischio che corre un ESP rimanendo per lungo tempo all’interno dei servizi. Questa permanenza potrebbe rallentare la possibilità di attuare un vero cambiamento e portare a rimanere affezionati alla propria diagnosi, soprattutto se è ancora in carico ai servizi. Ciò potrebbe promuovere un concetto di ‘malattia’ da cui non si può uscire, rischiando di fermarsi all’idea di dover accettare di convivere con essa per sempre. Questo potrebbe trasmettere una sorta di rassegnazione agli utenti in fase di recupero, ma anche nutrire l’illusione di poterli aiutare. Tuttavia, questa situazione potrebbe soddisfare un bisogno personale, creando una forma diversa di dipendenza mascherata dall’idea di offrire un supporto valido. Non so se sono riuscita a farmi comprendere; queste sono insidie che andrebbero considerate.

Personalmente, trovo difficile non mantenere un pensiero critico nei confronti di un sistema che ha segnato profondamente la mia vita. Ho affrontato momenti difficili e, sebbene possa reinterpretare quelle esperienze, non posso identificarmi completamente con esse. Questo riflette il mio punto di vista personale e, per questo, non aspiro a lavorare all’interno dei servizi.

Ci sono aspetti che ho vissuto direttamente e che sinceramente non mi permettono di instaurare una totale alleanza con il mondo della psichiatria. Oltre alla mia esperienza personale, ho appreso attraverso le storie che mi sono state raccontate di cattive pratiche in psichiatria: racconti di coercizione, di ricatti legati ai Trattamenti Sanitari Obbligatori (TSO), di obblighi nell’assunzione di terapie e degli effetti collaterali dei farmaci, propinamenti di amministratori di sostegno (ADS) che non rispettano la volontà della persona… Si tratta di esperienze forti che si verificano all’interno di molti servizi.

Il mio ruolo di ESP, quindi, mi porta verso contesti esterni e verso un auto-riconoscimento! Mi piace parlare di “riconoscimento consapevole”: prima bisogna imparare a riconoscere sé stessi per poter essere riconosciuti dagli altri. È mia intenzione trasmettere agli utenti ancora in fase di recupero l’idea che si può scegliere liberamente il proprio percorso di cura, che prima di tutto ci sono dei diritti che devono essere rispettati, che vanno valorizzate le proprie risorse, che ci si può liberare dai condizionamenti e che è necessario dare un senso al proprio malessere, perché ciò che ci accade ha sempre un senso. Inoltre, credo che la vita sia un gioco che vale la pena giocare, ma deve essere sempre il diretto interessato a decidere da chi farsi aiutare e a imparare a trasmettere quali sono i suoi veri bisogni.

Chi non trova un gioco degno di essere giocato cadrà nella paralisi della volontà, nell’apatia, nel mancato desiderio di fare qualsiasi cosa e può rimanere in uno stato depressivo. Poco serviranno i farmaci se poi non si riesce a trovare il proprio scopo nella vita, perché ognuno di noi ce l’ha; utilizzare i propri talenti, perché ognuno di noi li ha; essere grati alla vita, perché ognuno di noi dovrebbe trovare i motivi per esserlo, anche nelle difficoltà; fare il meglio che si può con quello che si ha; e se non si potesse cambiare la situazione, allora si dovrebbe “vivere al meglio delle proprie possibilità, “cercando soluzioni personalizzate.

Uscire dalla paura di ciò che può accadere e dare spazio anche all’imprevedibilità, tollerare l’incertezza, senza voler tenere tutto sotto controllo: questa è la criticità maggiore. Tutti vogliono tenere tutto sotto controllo: familiari, operatori, medici, amici, conoscenti, società… Così si rischia la frustrazione cronica, per assecondare le aspettative di ciò che gli altri vogliono, ma che non corrisponde al proprio “sentire”, con la conseguenza di una permanenza a lungo termine nei servizi.

Gli utenti, ex utenti ed esperti in supporto tra pari dovrebbero, secondo me, essere più coesi tra loro, prendendo spunto dal movimento del Recovery e dalla difesa dei diritti, come avviene, ad esempio, nel contesto americano o in altre realtà internazionali. Ho l’impressione che gli ESP italiani cerchino più di “comportarsi bene” per avere approvazione ed essere accettati dagli operatori dei servizi, piuttosto che fare massa critica per promuovere il cambiamento nel sistema, distinguendosi nettamente per quello che possono fare solo loro, con la loro specificità, qualunque attività svolgano come Esperti per Esperienza e nel contesto più appropriato ad ognuno.

Inoltre, è importante fare opera di sensibilizzazione sull’importanza di questa figura, che dovrebbe lavorare su un piano di indipendenza e apertura anche verso contesti internazionali. Mi piace utilizzare il termine “Collaboratori indipendenti”. È fondamentale che la relazione con le persone coinvolte sia orientata a un processo evolutivo, senza nascondersi dietro a facciate di finto progressismo.

Inoltre, è importante interrogarsi su come gli operatori percepiscono gli utenti (o ex utenti): quali pensieri, consci o inconsci, nutrono nei loro confronti? E quali emozioni sviluppano i peer nei confronti dei professionisti e dei servizi di salute mentale? Cosa può frenare l’accettazione della figura dell’utente esperto? Cosa può influenzare le relazioni tra utenti e operatori? Questi possono includere timore riverenziale, avversione, rabbia, scarsa fiducia, ma anche sottomissione, devozione e disponibilità eccessiva.

Essere circondati da figure professionali che ancora pensano a ciò che è giusto o sbagliato riguardo all’idea che hanno dell’utente che era o è ancora seguito dai servizi è un’insidia. Varrebbe la pena capire quali aspettative reciproche emergono da queste relazioni.

La mia intenzione è fare emergere aspetti significativi che, a mio avviso, devono essere messi sotto una lente di ingrandimento, anche facendo autocritica. Di conseguenza, anche se le idee e i punti di vista sono differenti, è importante creare spunti di riflessione, sanare i conflitti e abbassare la soglia di resistenza. Vorrei promuovere un dialogo incentrato sulle responsabilità e sulle opportunità, piuttosto che sulle colpe. Solo così potremo dare un senso all’inserimento nel contesto comunitario di questa preziosa realtà, che ancora fa fatica ad emergere in Italia. Questo rappresenterebbe un vero cambiamento di paradigma e innovazione.

Un altro aspetto fondamentale, secondo me, è la formazione e il suo ruolo nella prevenzione e nell’equipaggiamento delle persone. Non mi riferisco semplicemente all’acquisizione di informazioni che si traducono in un attestato di partecipazione, ma piuttosto a un percorso di crescita personale che miri a fornire gli strumenti necessari per gestire le proprie emozioni, approfondire la conoscenza di sé, esplorare i propri meccanismi mentali e biologici, riconoscere i condizionamenti e le credenze limitanti che possono ostacolare il proprio processo evolutivo e migliorare la comunicazione interpersonale. Essere curiosi e aperti a una formazione e aggiornamento continui e di qualità.

Io auspico che la definizione dei ruoli e delle responsabilità possa migliorare le esperienze degli utenti e dei loro familiari, anche grazie all’intervento degli esperti in supporto tra pari, contribuendo a creare le condizioni affinché si possa esprimere liberamente il proprio potenziale e, se si desidera, aiutare gli altri nel proprio cammino.

Tutto questo è legato a una condizione sociale che richiede “tempo dedicato” e risorse umane.

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