21 Novembre 2024
Racconti

Una giornata qualsiasi

Neppure quella mattina si era alzata dal letto, ma i suoi occhi, quando l’aveva baciata sulla fronte, non erano velati dalla paura. Non sembravano più quelli d’una preda braccata dai cani. O forse lui voleva soltanto illudersi che fosse davvero così, per dare una mano alla speranza. Voleva convincersi che lei stesse meglio.

La malattia

Da più di un mese aveva scelto di scendere in macchina per poter correre a casa in ogni momento. Ma quel giorno, facendo finta di essere tranquillo, s’incamminò di nuovo a piedi verso la città. Come aveva fatto sempre.

Impiegava una quarantina di minuti a passo svelto per coprire la distanza e quella rilassante camminata riusciva a predisporlo al meglio per affrontare il mondo. Perdendosi con piacere nei propri pensieri, anche quelli più oscuri, gli pareva di trovare risposte ad ogni problema, si sentiva di nuovo leggero, nonostante il peso sul cuore.

La sindrome di lei non era ancora stata diagnosticata. Si parlava vagamente di stress (la causa di ogni male, quando non si sa bene che male sia), uno stato di forte esaurimento, un profondo malessere generale che si traduceva in: poca voglia di vivere! Ma senza febbre non c’è malattia. I rimedi si limitavano a palliativi e tanti, troppi buoni consigli: ogni “fatti coraggio” o “tirati su…” erano altrettanti pugni nello stomaco che andavano ad alimentare il senso di colpa e la voglia di farla finita.

L’incoscienza

Quella mattina ancora non sapevano. Quel malessere non aveva ancora un nome, quella bestia non era ancora stata aggredita e lui scendeva incosciente verso l’ufficio come fosse un giorno qualsiasi. Anche se l’angoscia gli attanagliava sempre lo stomaco, tornare finalmente a quella passeggiata mattutina gli aveva reso un senso di pace e di libertà che non provava da tempo.

Il tragitto della scorciatoia si snodava attraverso i campi, lontano dal traffico e dal frastuono delle ore di punta. Le solite facce che incontrava lungo la strada, dopo quella pausa involontaria, erano rassicuranti e contribuivano a fargli pensare che tutto, con un po’ di pazienza, sarebbe tornato a posto.

Ricordi e progetti

All’immagine stanca della sua compagna si andava sempre più nitidamente sovrapponendo quella raggiante dei ricordi più belli, di quando il suo sorriso pareva gareggiare col sole.

La natura agghindata dall’incipiente primavera sembrava volergli fare coraggio: dopo l’inverno ecco che torna a rifiorire la vita! Avrebbero potuto prendere un breve periodo di vacanza, pensava, tanto per ricaricare le pile. I ragazzi ormai erano grandi, avrebbero continuato ad arrangiarsi contando anche sui nonni…

Avrebbe sentito la ragazza piena di brio che faceva le pulizie in ufficio, una sua buona amica, per un aiuto nelle faccende domestiche ed una compagnia almeno una volta alla settimana… finanze permettendo!

Se solo avesse potuto andarsene in pensione, le sarebbe rimasto sempre accanto, a proteggerla, aiutarla, coccolarla. Ma aveva ancora tanti anni di lavoro davanti e si perdeva a rincorrere soluzioni di scarsa concretezza. Neppure il vecchio medico di base aveva indicazioni efficaci e si limitava a prescrivere ricostituenti che si alternavano inutili agli zabaioni della suocera, sempre più spesso finiti nel cesso.

La drammatica realtà

Con lo sguardo immerso nell’azzurro del cielo che incorniciava il nitido contorno delle montagne, pensava a tutte queste cose come se fosse una preghiera. Una richiesta d’aiuto lanciata nel vento.

Una volta arrivato in ufficio si fece subito prendere dalle questioni del lavoro come se le richieste di assistenza dei colleghi fossero un benedetto diversivo, un pretesto per pensare ad altro, far scorrere il tempo un po’ più veloce.

Soltanto dopo le nove si decise a fare quella telefonata: “Amore, sono io, oggi è una bella giornata…” mai chiederle: “Come stai?” le avrebbe fatto l’effetto di una pugnalata. Ma il telefono suonava a vuoto: “Sarà in bagno” pensò, e riprovò più tardi con la parola “Amore” a fior di labbra. Ma l’amore non rispose e continuò a non rispondere.

I vicini di casa

Senza farsi prendere dal panico (con la paura non si ragiona, non si risolve nulla) cercò il numero dei suoi vicini. Chiamò con voce calma e piatta, come per una telefonata di cortesia, cercando di tenere sotto controllo l’angoscia crescente nel proprio stomaco, quel vortice di vuoto che ti scuote dentro e ti risucchia verso un fondo senza ritorno.

Rispose la figlia più grande, una signorina: la pregò di suonare alla porta accanto… lei tornò dicendo che nessuno rispondeva, che c’era solo il cane che abbaiava e raschiava con le zampe alla porta…

Il ritorno

Come un automa, estraneo ad una realtà inaccettabile riagganciò la cornetta, si alzò lentamente. Con una flemma innaturale s’infilò il giaccone e si diresse dal capufficio: “Devo uscire.” E se ne andò senza attendere risposta. Come fluttuando nello spazio, l’eco delle sue stesse parole gli rimbombava nel cervello, trasportata da onde a bassa frequenza.

Il turbine che lo sconvolgeva all’interno si traduceva esteriormente in un passo cadenzato tra la folla invisibile. Lo sguardo perso in lontananza sembrava quello di un artista rapito dall’estasi dell’ispirazione.

In effetti il suo pensiero volava, a dispetto della calma ostentata, a immaginare scenari sconvolgenti che la ragione voleva negare. Lui stesso avrebbe voluto volare, trovarsi immediatamente a casa, cercarla, prendere finalmente quella maledetta macchina e correre al ponte, arrivare in tempo…

L’autobus troppo lento

Ma doveva rassegnarsi: come un passeggero qualunque in un giorno qualunque, aspettò l’arrivo dell’autobus in ritardo come al solito d’un paio d’interminabili minuti. Timbrò il biglietto come fosse l’azione più normale di questo mondo e aspettò pazientemente la chiusura delle porte ed il veicolo pubblico, pieno di gente qualsiasi, immettersi pesantemente nel traffico di mezza mattina.

Ogni fermata una tortura. La gente che scendeva e quella che saliva sempre troppo lentamente, ognuno con i propri pensieri e nessuno che si accorgesse del dramma che si stava consumando lì, ad una spanna dal loro naso.

Avrebbe voluto eliminarli tutti, far sparire il mondo, quell’autobus soffocante, quell’autista incapace e insopportabilmente distratto, le fermate… ed anche il suo passato, ricominciare tutto daccapo. La testa vuota, un buco nello stomaco, il sangue ribollire ed il respiro stranamente tranquillo: lunghe e profonde boccate d’aria come acqua a voler spegnere un incendio.

Un barlume in fondo al pozzo

Quando finalmente arrivò alla sua fermata, offrì istintivamente il braccio ad una signora anziana che lo ringraziò con stupore, ma lui non sentì nulla e affrontò la breve salita come fosse l’ultimo tratto del K2: le gambe molli e pesanti gli tremavano, ma giravano come una turbina.

Gli venne incontro una vicina come l’apparizione della Madonna: “Sta bene – disse subito – l’hanno portata al pronto soccorso!” Poi lo prese sotto braccio e lo spinse decisamente verso un angolo appartato: “L’hanno trovata sul ponte… sono riusciti a fermarla e hanno chiamato l’ambulanza… sta bene, va’ da lei!”

Un giorno qualsiasi stava per finire. Mentre il mondo consumava il suo lento giro su se stesso e la gente trascorreva le ultime ore occupandosi delle proprie faccende, lui aveva sentito la morte sfiorargli il cuore, aveva conosciuto la disperazione e l’impotenza che sempre l’accompagna, era precipitato in un pozzo buio dove, in fondo, aveva visto un barlume di luce cui aggrapparsi per ricominciare.

Stefano Ricci

Nato a Siena nel 1950 è approdato nel '68 a Trento, dove si è laureato in Sociologia. Quella stagione di “contestazione globale” ha caratterizzato l'intera sua esistenza. Sempre impegnato in politica, nel Sindacato e nel volontariato si è poi ritrovato a misurarsi col mondo della salute mentale, anche qui da protagonista.

2 pensieri riguardo “Una giornata qualsiasi

  • Dopo solo 2 anni di matrimonio e x 38 anni ho combattuto il bipolarismo di mio marito. Abbiamo avuto momenti sereni alternati da altri travagliati…cmq una bella famiglia con 2 figli. È stato seguito dal DSM con medici molto vicini anche perché io prevenivo sempre la malattia.
    Dal tempo COVID purtroppo non è andato + bene….sempre peggio fino ad un anno fa purtroppo è venuto a mancare x Sua volontà. Ed io ad oggi sono arrabbiata con Lui…con le strutture. Mi sento sconfitta in una lotta inutile.

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    • Carissima, il tuo commento non chiede risposta, ma non posso esimermi da esprimere almeno la mia vicinanza che si fonda, purtroppo, sull’esperienza. Anch’io, a volte, mi scopro arrabbiato verso mia moglie che non riesce a scrollarsi di dosso quella stanchezza di vivere che non ha evidenti motivi. Mi coglie per questo il senso di colpa che mi fa arrabbiare ancora di più. Perché non ho colpe, come non ha colpa lei, come non hanno colpa i medici che fanno ciò che possono… eppure abbiamo bisogno di urlare la nostra frustrazione contro qualcuno che non sia troppo genericamente “la malattia”. Tra tutte le gravi malattie che possono portare alla morte, quella psichiatrica è la più subdola e odiosa. Inafferrabile, incomprensibile, spesso si confonde con la volontà, falsa i sentimenti e le emozioni, rende difficile la relazione e la condivisione… Ma la lotta, anche quando, come dici tu, risulta inutile (e ti capisco!) è l’unica cosa che ci resta, fino all’ultimo respiro e dopo ancora per far conoscere a chi non sa cos’è la malattia mentale. Usare la nostra fatica, il nostro dolore enorme per richiamare la responsabilità di ognuno. A volte l’indifferenza, l’ignoranza, la superficialità del mondo possono essere crudeli, mentre un po’ di gentilezza può essere d’aiuto. Non ho parole di conforto (forse non ce ne sono), mi piace però pensare a quei “momenti sereni” che tu ricordi e a quella “bella famiglia con 2 figli” che nessuno potrà mai toglierti. Nei momenti più bui, anche per me andare a quelle immagini mi dà la forza di proseguire. Ti abbraccio forte. Stefano Ricci.

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